Testo di Claudia Compiani per Adolescenza InForma – Foto di Free-Photos da Pixabay
Dal Giappone all’Europa. Nel passaggio culturale tra oriente e occidente, il nome cambia ma il fenomeno del ritiro sociale persiste in tutta la sua potenza. Ne abbiamo degli esempi attraverso le parole di due grandi scrittori.
Francia
«Poi, il giorno dell’esame arriva e tu non ti alzi. Non è un gesto premeditato, d’altronde non è neanche un gesto, bensì un’assenza di gesto, un gesto che non fai, dei gesti che eviti di fare. […] Non prenderai mai la laurea, non comincerai mai la specializzazione, non continuerai gli studi». (Perec, pp. 20-22)
Da questa assenza di gesti verso le richieste del mondo moderno, si profilano altri gesti, quelli minimi e automatici del quotidiano: alzarsi, vestirsi, preparare il caffè, far bollire l’acqua, sedersi, distendersi, lasciarsi attraversare dai lampi opachi e reviviscenti della memoria, dai suoi giochi di rievocazione, per dimenticarli appena dopo. Il tutto avviene in una geometria inserita nell’asse corpo- letto, corpo-stanza.
Al limite il corpo può prolungarsi, placido, in passeggiate notturne, quando la sagoma della presenza, diveniente un’ombra indisturbata, girovaga tra i bulevards di Parigi. Il fascino che si scopre nell’ordinario diventa, a poco a poco, un malessere insidioso che invade e intorpidisce il corpo, inchiodato alla volontà di non vedere o parlare con nessuno, né di pensare, né di muoversi. Il solo abito indossato diventa quello dell’attesa, di un far passare le ore e con esse i giorni, i mesi, gli anni. Per accorgersi, alfine, di non saper vivere.
Austria
«Un bambino aveva preso l’abitudine di andare in bagno, alla toilette, al gabinetto, senza averne bisogno. E questo accadeva ogni volta che la compagnia degli altri, degli adulti, della famiglia, si faceva soverchia per lui – diventava troppo –, ogni volta che gli riusciva come un peso, una pena. Allora si chiudeva nella ritirata per non dover più sentire chiacchiere, e restava là dentro ben più del dovuto». (Handke, pp. 8-9)
Nel suo Saggio sul luogo tranquillo Peter Handke evoca descrizioni di luoghi appartati per indicare quella che per lui, sin da ragazzo, sulla soglia tra l’infanzia e l’adolescenza, è stata, più che una semplice attrazione, un’esigenza potente, potente in quanto desiderata. Il testo, in un susseguirsi di impressioni e rammemorazioni, ripercorre abitacoli, angoli di mondo, toilette, sgabuzzini, infermerie, capanni, rimesse, tutti caratterizzati da tratti comuni, tratti che soddisfano una necessità.
Sovente avvertiamo il richiamo proveniente, se non dall’avventura o dalla festa della socialità, dalla tranquillità di cantùcci remoti, deserti e nascosti. Cerchiamo un posto lontano da tutto il resto, lontano dalla calca, dai frastuoni, lontano dalla vista, dai movimenti più appariscenti della vita.
La ricerca di quiete acquista per molte soggettività il carattere della necessità d’essere: sentirsi essere in un luogo tranquillo. Vogliamo sentire di poter disporre il tempo in uno stato di quiete per ascoltare e sviluppare sensibilità rivolta ai micromovimenti. Ascoltiamo il silenzio o, più propriamente, i suoni e i rumori attutiti del mondo esterno, li ascoltiamo in un luogo tranquillo, avvertendone tutta la distanza. La semplice vista di uno spazio vuoto, promette nascondiglio e rifugio, protezione e sollievo. Ci si ritrova così a essere confortati dalla distanza, a rimanere indisturbati, in uno spazio di fuga.
o GEORGES PEREC, Un uomo che dorme, Quodlibet, Macerata, 2013, ed. or. Un homme qui dort, Éditions Denoël, 1967.
o PETER HANDKE, Saggio sul luogo tranquillo, Ugo Guanda Editore, Milano, 2020, ed. or. Versuch über den Stillen Ort, Suhrkamp Verlag, Berlin 2012.
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